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I batteri sono organismi semplici ma altamente specializzati ed hanno la capacità di adattarsi all’ambiente modificando il loro metabolismo ed acquisendo geni che permettono loro di diventare insensibili all’attività dei farmaci antimicrobici.
In “era pre-antibiotica” si rischiava di morire per una banale infezione come una ferita, la puntura di un insetto, o una polmonite.
Dagli anni ’50 in poi si è assistito ad una continua ed impetuosa produzione di antibiotici, e sono state introdotte nel mercato nuove classi di farmaci che hanno permesso una terapia sempre a più ampio spettro. La sintesi di nuovi farmaci antibiotici è andata, purtroppo, di pari passo con lo sviluppo di resistenze, sempre più complesse, da parte dei microrganismi.
Si sono ormai selezionati i cosiddetti “super-batteri”, ceppi ormai resistenti a quasi tutti (o in alcuni casi a tutti) gli antibiotici in commercio. Pochissime molecole nuove saranno disponibili nel prossimo futuro, causa di un ritardo della ricerca farmaceutica che non ha visto nella sintesi di nuovi antibiotici un’area di interesse prioritario.
“Bad bug, no drugs”. Cosa succederebbe se iniziasse “l’era post-antibiotica”?
Nel rapporto sulle conseguenze sociali e politiche dell’antibiotico resistenza di Jim O’Neill si stima che nel 2050 circa 10 milioni di persone al mondo moriranno per una infezione da germi resistenti agli antibiotici, superando i decessi per altre malattie altamente mortali come i tumori, il diabete e per incidenti (report di Jim O’Neill).
Se non avessimo a disposizione gli antibiotici non saremmo in grado di eseguire importanti interventi chirurgici, trapianti di organi o cellule staminali, non saremmo in grado di posizionare dispositivi medicali come pace-maker cardiaci, protesi valvolari, protesi ortopediche, o di praticare quelle manovre invasive diagnostico-terapeutiche che sono routinarie oggi.
I fattori determinanti per lo sviluppo della resistenza antimicrobica sono, da una parte, l’uso inappropriato in ambito medico e la pressione antibiotica selettiva esercitata in ambito comunitario e ospedaliero, e, dall’altra, l’uso massivo di antibiotici, ad esempio, nell’allevamento.
Si stima che fino al 50% delle prescrizioni antibiotiche siano inappropriate o in termini di indicazione o per il dosaggio e la durata della terapia.